I coniugi Miriam Bartolini e Silvio Berlusconi ai tempi felici

Giurisprudenza in tema di assegno di mantenimento e di divorzio

Ieri: È irrilevante che si tratti di una relazione stabile. 
La nuova relazione non incide sugli alimenti all'ex.
(Cassazione 11488/2001).


Il coniuge che, dopo la separazione, imbastisca una nuova relazione non perde il diritto agli alimenti, nemmeno se si tratti di una relazione stabile. Questo il principio stabilito dalla Prima Sezione Civile, presieduta ancora da Corrado Carnevale, che ha accolto il ricorso di una signora romana che dopo la separazione dal marito si era vista ridurre sensibilmente l'assegno di mantenimento posto a carico dell'ex. La Suprema Corte ha rilevato che ciò che determina il congelamento o la riduzione dell'assegno di mantenimento, infatti, non è la prova della stabilità della relazione extraconiugale ma quella dei vantaggi economici che da essa derivano in via continuativa e con presumibile certezza. (9 novembre 2001).

Oggi: Se lex ha una relazione perde lassegno di mantenimento


Addio mantenimento se cè un nuovo partner anche senza bisogno che vi sia una stabile convivenza more uxorio


Sino a ieri perdeva l’assegno di mantenimento l’ex moglie che iniziava una nuova relazione con un’altra persona a condizione che andasse a vivere con questa sotto lo stesso tetto, creando così una famiglia di fatto. Non è giusto, ha sostenuto più volte la Cassazione, imporre al precedente marito di farsi carico e sostenere economicamente anche il nuovo nucleo familiare dell’ex coniuge. In questa interpretazione, però, l’elemento della «stabile convivenza» tra i due nuovi partner era considerato necessario per poter parlare di una relazione more uxorio, assimilabile cioè a quella della coppia sposata. Ma le cose stanno cambiando. Secondo infatti una recente sentenza del Tribunale di Como, se l’ex ha una relazione perde l’assegno di mantenimento anche senza bisogno di convivenza. Basta insomma che ci sia un legame amoroso nuovo.

Estratto da: https://www.laleggepertutti.it/202145_se-lex-ha-una-relazione-perde-lassegno-di-mantenimento . L'articolo è interessante, tuttavia semplifica un po' troppo la questione. Contributi migliori sono reperibili qui di seguito.

Una trattazione completa di tutte le variegate situazioni in ambito coniugale di separazione e divorzio, la si trova nel saggio del magistrato della Corte d’Appello di Napoli Geremia Casaburi, il cui ultimo lavoro è:

Gli assegni della crisi familiare nella giurisprudenza più recente, tra perduranti incertezze


Dove troviamo un brillante excursus storico, dall’orientamento classico, rappresentato dall’ “arresto” giurisprudenziale delle sezioni unite del 1990 (si tratta di quattro sentenze “gemelle”: Cass., 29 novembre 1990, nn. 11489-11492), le quali avevano affermato che il presupposto per concedere l’assegno — con funzione solo assistenziale — è costituito «dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (tenendo conto non solo dei suoi redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre) a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell'avente diritto»

Da qui, appunto, la profonda omogeneità (o almeno fortissima vicinanza) con l’assegno di mantenimento nella separazione, fermo che – la giurisprudenza l’aveva chiarito nei decenni successivi – nell’assegno di mantenimento la conservazione del tenore di vita rappresenta il parametro inderogabile di riferimento, mentre per l’assegno divorzile rappresenta il tetto massimo (astrattamente determinabile in sede di statuizione sull'an debeatur), in quanto, in concreto, il relativo importo poteva essere "moderato", fino all'azzeramento, alla stregua dei criteri di cui alla prima parte dell'art. 5, comma 6, l.div.

Dopodiché è arrivata la famosissima “sentenza Berlusconi-Bartolini (più nota come Veronica Lario) che pareva aver capovolto tutto; anche se, certamente, si era in una situazione eccezionale e, a dir poco, scandalosa, con la moglie che percepiva un assegno di mantenimento di 2 milioni (o 2,5 o 1,4 a seconda di quanto pubblicato dalle varie testate) di euro al mese, ed innumerevoli prestigiose proprietà immobiliari intestate.

“In altri termini, mentre le sentenze del 1990 fondavano il diritto all’assegno divorzile sulla esigenza di conservare, al coniuge economicamente più debole, e sia pure solo tendenzialmente, il tenore di vita goduto o godibile nel corso della vita matrimoniale, la pronuncia del 2017 lega tale diritto — visto alla stregua di una previdenza sostanzialmente eccezionale, e infatti addirittura fondato sull’art. 23 Cost. — alla mancanza di autosufficienza economica da parte del richiedente”.

“L’intervento delle sezioni unite, Cass. n. 18287/18, generalmente ben accolto dalla dottrina, e – come si dirà – dalla giurisprudenza, in primo luogo di merito, ha scelto una terza via, tra quella indicata dalle sezioni unite del 1990 e l’“eresia” del 2017.

Il giudice di merito deve, evidentemente, muovere dall’accertamento (rigoroso sotto il profilo probatorio; e qui vi è, forse, ancora un riflesso di Cass., n. 11504/17) della mancanza di mezzi adeguati da parte del coniuge richiedente, e dall’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive

Sia le sezioni unite del 1990 che ilrevirement2017, al riguardo, hanno fatto ricorso a parametri estranei al testo normativo (il tenore di vita, nel primo caso; l’autosufficienza del richiedente, nell’altro), annota criticamente la sentenza in rassegna.

Il giudice di merito deve quindi procedere a una comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti (infatti tenute anche alla produzione della propria documentazione fiscale), avvalendosi, se del caso, dei poteri ufficiosi di cui dispone.

Il giudice è allora chiamato a un accertamento ulteriore, dovendo valutare se una tale disparità economica, sussistente al momento del divorzio, discenda o meno dalle scelte condivise dai coniugi, in costanza di vita matrimoniale, circa la conduzione di quest’ultima e la divisione dei ruoli, con sacrificio delle aspettative professionali e reddituali della parte risultata, con il divorzio, economicamente più debole.

Rilievo cruciale hanno poi, sempre con riferimento a tale accertamento, la durata del matrimonio, ma anche l’età del coniuge richiedente.

Specie sotto tale ultimo profilo, il giudizio di inadeguatezza ha anche un contenuto prognostico quanto alla possibilità, per il richiedente, di recuperare quel pregiudizio attraverso una collocazione, o ricollocazione, nel mondo del lavoro.

In altri termini ancora — la sentenza delle sezioni unite è particolarmente insistente —, la disparità economica tra i coniugi costituisce elemento necessario, ma non sufficiente, per il riconoscimento dell’assegno divorzile. È infatti dirimente il fattore causale, dovendo accertarsi (come detto, con rigore) se quella condizione di squilibrio economico sia da ricondurre, trovandovi radice, alle determinazioni comuni e ai ruoli endofamiliari svolti (sempre in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente), che hanno comportato il sacrificio di aspettative professionali e reddituali da parte del coniuge che abbia assunto un ruolo prevalente o esclusivo all’interno della famiglia, pur avendo comunque contribuito in tal modo alla formazione del patrimonio comune e a quello di ciascuno dei due.

Il riconoscimento dell’assegno muove, sì, dalla comparazione delle condizioni economiche delle parti, ma — e qui il riferimento è più direttamente alla quantificazione (l’unico nella sentenza) — dovrà condurre a un importo non rapportato a un’astratta nozione di autosufficienza (vi è qui un ulteriore critica alla pronuncia del 2017), ma tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo da esso fornito nella realizzazione della vita familiare, appunto tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche sacrificate (sempre in considerazione anche della durata del matrimonio e dell’età del richiedente medesimo).

funzione equilibratrice dell’assegno, sottolinea la sentenza, prendendo qui le distanze dalle sezioni unite del 1990, non è finalizzata alla ricostruzione del tenore di vita endoconiugale, ma solo al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge più debole nella realizzazione dell’attuale situazione economica della famiglia.”

E qui arrivano le considerazioni grandemente di parte e vagamente

Misandriche del magistrato redattore del saggio:

“Il principio di autoresponsabilità di entrambi i coniugi non può tradursi nell’irresponsabilità assoluta dell’uno nei confronti dell’altro.

Tutto questo è affermato o comunque sotteso, e con forza, dalla pronuncia delle sezioni unite, che ripristina (o, almeno, cerca di farlo) i diritti di tanti ex coniugi, in gran parte donne, messi da parte, “rottamati”, tanto per usare un neologismo in voga, da Cass., n. 11504/17, dimentica del carattere tuttora "asimmetrico" di tante famiglie italiane, anche di recente formazione.

È, poi, apprezzabile il superamento dell’assurda, e mai realmente praticata, distinzione tra la fase determinativa e quella di quantificazione dell'assegno, che non ha reale riscontro normativo – le sezioni unite hanno finalmente scoperto, viene da dire, che "il re è nudo".

Ma ecco una considerazione davvero interessante:

“La stessa marginalizzazione della funzione assistenziale dell’assegno divorzile (invece centrale sia per le sezioni unite del 1990 che per la pronuncia del 2017) non è priva di ambiguità, o almeno presenta delle possibili implicazioni meritevoli di sviluppo futuro: ad esempio, potrebbe esservi più ampio spazio per i cd. accordi prematrimoniali (il cui divieto si è fino ad ora fondato, essenzialmente, proprio sulla centralità di quella funzione, e dei diritti indisponibili che ne conseguono).”

 

 

Studio Legale Avv. Lorenzo Tornielli